Il dramma di Michele: quando il precariato uccide

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Qualche giorno fa, su un noto giornale veneto, è stata pubblicata la lettera di Michele, morto suicida a soli 30 anni.

Nella lettera, che ha fatto il giro del web, Michele scrive le motivazioni del gesto estremo che stava per compiere. Lo fa ragionando lucidamente, con un’esposizione bella e precisa.

“Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.”

Michele conclude la lettera chiedendo perdono ai suoi genitori, perché scegliendo di togliersi la vita procurerà loro un dolore insopportabile. Poi, sferra un colpo all’attuale ministro del lavoro, Poletti, la cui gaffe sull’emigrazione dei giovani italiani all’estero mi dà ancora qualche brivido.

Le parole di Michele sono un’accusa di alto tradimento: “io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare”.

Racconta dei colloqui di lavoro inutili, delle porte sbattute in faccia, dei continui rifiuti. Dopo aver studiato, frequentato corsi, aver fatto del suo “malessere un’arte”, che però è rimasta incompresa, Michele tira le somme, fa un bilancio della sua vita e giunge alla conclusione che è meglio smettere di vivere, se questo significa smettere di soffrire.

“Sto bene. Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine.”

Lucido, fino alla fine.

Rivolgendosi ai genitori, agli amici ma anche al ministro Poletti, Michele ha formulato un atto d’accusa destinato a diventare pubblico. E così è stato: dalla carta stampata ai quotidiani online, ai social, al web in generale.

Il suicidio viene condannato dalla morale cattolica, ma io non dimentico mai quello che Seneca scrisse a Lucilio, nelle sue Epistulae morales : “non è opportuno, lo sai, conservare la vita in ogni caso; essa infatti non è di per sé un bene; lo è, invece, vivere come si deve.”

E così scriveva Michele: “lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo”.

L’accusa alla società è lecita perché è vero che per la generazione di Michele (la mia) è sempre più difficile trovare lavoro e stabilità. Secondo l’Istat, l’indice di disoccupazione tra i più giovani (15-24 anni) ha toccato il 40,1%. Quasi uno su due non lavora.

Per questo molti hanno pensato che la lettera fosse una sorta di manifesto, un grido di disperazione di una “generazione perduta”- come l’ha definita lui – vittima del furto della felicità.

La metà di noi è alla ricerca della serenità, aggrappata a speranze e ambizioni che Michele non aveva più.

Ma è vero che siamo vittime? È giusto scagliarsi contro il sistema e la società, contro chi arriva ai palazzoni nelle auto blu? Sicuramente lo Stato, il “sistema” ha colpa. Ma noi? Siamo esenti da colpe noi?

La rivista L’Espresso ha pubblicato la lettera di una giovane fotografa di Udine, coetanea di Michele. Leggendo le sue riflessioni, mi resi conto di quanto anche io sia implicata nella vicenda; non direttamente, certo, il suicidio è una faccenda privata…ma non è forse vero che se siamo una generazione perduta, lo dobbiamo anche un po’ (o tanto?) a noi stessi?

Visto che il disagio riguarda tutti noi, perché non unire le forze e non provare a scardinare questo sistema ingiusto, questa società che ci ruba il futuro?

Perché, ad esempio, non rinunciare a frequentare un posto dove i giovani sono sottopagati e sfruttati? Un posto dove il limite della sopportazione umana coincide con l'assunzione di un altro dipendente, destinato a subire lo stesso trattamento; un posto il cui titolare ti sfida ad andartene: “se non ti sta bene, io lo trovo subito un altro che prende il tuo posto”. Sarebbe semplice, eppure non lo facciamo.

Non lo facciamo perché ci manca la “coscienza sociale”: siamo tutti troppo individualisti, impegnati a scalare le nostre vette, tutti ripiegati su noi stessi quando la salita diventa troppo ripida, ancor più quando arriviamo alla meta.

Il disagio di Michele era universale, un pessimismo profondo che gli ha tolto la voglia di vivere. Forse per la sua troppa sensibilità, Michele ha smesso di lottare.

Non siamo tutti uguali. Spesso il disagio trova altre soluzioni. Il suicidio resta un fatto raro.

Tuttavia, può accadere a chiunque di svegliarsi una mattina e sentirsi stanco di lottare, stanco di reagire ai rifiuti, alle prevaricazioni, di assistere al successo altrui, di provare a costruirsi un futuro senza riuscirci, di vivere nell'ansia, di sentirsi inerme. Nella speranza che quel giorno non arrivi mai, non limitiamoci a vivere di ottimismo, perché non è inesauribile.

Armiamoci di coraggio, affrontiamo di petto le difficoltà e cogliamo tutte le occasioni possibili per migliorare la nostra vita e quella di chi amiamo.

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